Focus On

David Bowie

1966:  Uno sconosciuto diciannovenne inglese, che suonava il sassofono e coltivava multiformi aspirazioni, decise di abbandonare i propri dati e trovarsi un nome d’arte. Scelse così di appropriarsi del cognome del pioniere americano James Bowie, famoso anche per aver dato il nome all’omonimo coltello.
Il diciannovenne neonato David Bowie avrebbe di lì a poco firmato il suo album di debutto, una mescolanza di variegate suggestioni tanto genuina quanto, di già, definitiva.

Nel corso di cinquant’anni di stupefacente carriera, David Bowie è diventato Ziggy Stardust, Aladdin Sane, poi il longilineo Duca Bianco, cambiando faccia e cambiando costumi, circondandosi di mostri spaventosi e fini sperimentatori, vendendo e scioccando il mondo, volando alto da utopie acustiche a disincanti elettronici, inafferrabile ed indefinibile.

 

Tanto che la certezza è una sola: finché ci sarà un pianeta terra costretto dalle sue stesse ripetitive logiche, David Bowie sarà un extraterrestre così infaticabile e così generoso da poterci imprevedibilmente salvare tutti.

L’abitudine a guardare alto sopra le nostre teste Bowie ce l’ha insegnata fin dagli inizi, dalle note fantascientifiche che cullano Space Oddity a quelle candidamente surreali di Life on Mars?. Continua a farlo ancora oggi, come prova l’appena pubblicata Blackstar, col suo ipnotismo misterioso.

Forse è tutta colpa della sua anima d’artista, troppo grande per potersi accontentare di un solo pianeta.

D’altronde, con la musica ha fatto lo stesso, ponendosi il solo limite di non conoscere limiti.

Basta elencare i titoli dei suoi capolavori a 33 giri per rivivere l’intera storia di decenni di musica nelle loro inflessioni più  varie: da Space Oddity con la sua vocazione cantautorale al rock acido di The Man Who Sold the World, dalla visionarietà barocca di Hunky Dory all’epica glam di The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, dalle infatuazioni ibride di Aladdin Sane all’energia di Pin Ups e Diamond Dogs, dall’affascinante soul robotico di Young Americans al disincanto maudit di Station to Station, dalle sperimentazioni decadenti e distaccate della straordinaria trilogia berlinese (Low, Heroes, Lodger) fino ai sapienti ammiccamenti pop di Scary Monsters e Let’s Dance.

Se già Black Tie White Noise nel 1993 aveva lasciato intravedere una rinascita creativa ,, Outside, pubblicato due anni dopo, dà solida conferma della strada scelta dal Bowie più maturo: quella decisa e impervia di una sperimentazione  più innovativa.

La ritrovata collaborazione con Brian Eno è un’ulteriore spinta in questa direzione: l’album si rifà alle tensioni elettroniche della trilogia berlinese aggiungendovi il punto di vista del decennio che lo ospita . Nell’ampia scaletta di tracce (tra le quali brillano la sinistra The Heart’s Filthy Lesson e l’energia possente di Hallo Spaceboy) troviamo tracce di techno, industrial ,grunge.

L’album del ’97 Earthling fu pubblicato dopo appena due settimane e mezzo di registrazione, e fotografava David Bowie nel suo andare incontro ai mondi  della techno e della jungle, sposandone le massicce sonorità elettroniche a testi di grande stile.

Allo stesso tempo aggressivo e distaccato,  enigmatico e plateale, l’extraterrestre Bowie puntava il dito contro la Terra e i suoi abitanti malati, alternando in brani infuocati come Little Wonder e Looking for Satellites torve declamazioni techno ed esplosioni di rock duro e graffiante.

L’ultimo album del millennio, ‘Hours…’, suona come una riconciliazione del suo autore con un passato multiforme . Le preoccupazioni contemporanee continuavano ad indirizzare l’attenzione di testi e musiche, con  canzoni come Thursday’s Child che  hanno un respiro più rilassato, meritata boccata d’aria per un artista infaticabile in grado di attingere ad un repertorio sterminato di stili e linguaggi.

La stessa produzione distesa distingue Heathen, il debutto nel nuovo Millennio che trovava un Bowie più in forma che mai. E, soprattutto, affiancato da una vecchia conoscenza :a ventidue anni di distanza da Scary Monsters, infatti, l’album segnava il ritorno dello storico complice Tony Visconti. Le dodici tracce giocano coi generi e gli umori, passando dall’elettronica pensosa di Sunday alle narrazioni eteree di Slip Away, fino all’incalzante manifesto A Better Future, e possono contare anche su due cover che ben riassumono le influenze del disco: Cactus dei Pixies e I’ve Been Waiting for You, di Neil Young.

Bowie si presentava l’anno successivo, nel 2003, come un figurino cyber circondato da misteriose simbologie .

Così l’artista Jonathan Barnbrook aveva deciso di raccontare la poetica di Reality e delle sue ipnotiche tracce nella copertina dell’album. Il titolo è una riflessione  ironica ed amara sul presente e sulla sua perdita di appigli: persino la realtà, sottolinea Bowie, è diventata un’inafferrabile concetto astratto. Le canzoni, ancora una volta curate a quattro mani insieme a Tony Visconti,  danno vita a nuovi classici come Bring Me the Disco King.

Il Reality Tour dell’anno seguente fu improvvisamente interrotto dopo che Bowie dovette essere operato al cuore d’urgenza. Il ritiro dalla vita pubblica, infarcito di false notizie, sospetti ed impazienza, ha portato alla lunga gestazione di quello che si è rivelato un capolavoro della maturità.

The Next Day ha preparato il suo debutto in sordina, stupendo il mondo intero con l’uscita improvvisa del singolo Where Are We Now?. Di fronte a David Bowie non ci si dovrebbe più stupire, ma ecco di nuovo il colpo inaspettato: per lanciare l’album è stata scelta l’unica ballad impregnata di inestinguibile melanconia.

Ripresentandosi dopo quasi dieci anni di silenzio, Bowie è tornato ad immobilizzare il mondo, facendolo cadere ancora una volta ai suoi piedi. E lo stesso sembra intenzionato a continuare a fare con il nuovo album, in uscita a gennaio, anticipato dai singoli Blackstar e Lazarus. La titletrack sfiora i dieci minuti di durata esplorando terre tanto sinistre quanto ammalianti dell’universo musicale e, più ampiamente, artistico.

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