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Legacypedia 4.0 – settimana #31

18 Sep 2015

JOHNNY CASH – AT FOLSOM PRISON

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Traendo spunto da due volumi autobiografici di Johnny Cash, il regista James Mangold raccontò la storia di questo straordinario musicista, dalle origini fino al 1968, nell’eccellente film “Quando l’amore brucia l’anima – Walk the line” del 2005.

Il film inizia con un Johnny Cash (Joaquin Phoenix) che nel retro del palco organizzato nella prigione di Folsom in California aspetta di entrare in scena. Parte da lì un lungo flashback in cui incontreremo e conosceremo episodi della vita del cantante, poi, nel finale, il film ci ricondurrà a Folsom proprio nel momento in cui il musicista sta per esibirsi difronte ad una platea di galeotti che gridano, inveiscono e sbraitano.
Quel giorno Cash si esibirà due volte, il mattino dopo poco prima delle 10 e nel primo pomeriggio; questo ha preteso il suo produttore Bob Johnson che dalle due performance deve ricavare un album live. La data scelta per il concerto è il 13 gennaio del 1968, a metà maggio il disco verrà commercializzato. Nasce in questa maniera “At the Folsom prison”, lavoro centrale nell’intera attività del musicista: centrale perché rivitalizza una carriera che l’uso di droghe ed un cambio generazionale avevano compromesso da anni e centrale anche perché questo disco è ancor oggi considerato il capolavoro di Cash, in assoluto è una delle incisioni più significative prodotte nella storia del country e del rock.

Questi due termini si associano alla perfezione per definire l’apporto del cantante alla musica americana, anche se entrambe, sia country che rock devono esser calibrati ed intesi soprattutto nelle loro infinite accezioni e diversioni. Nei primissimi anni ’50, nel periodo in cui prestava il servizio militare nella base americana a Landsberg nella Germania Ovest, Johnny Cash aveva avuto modo di assistere alla proiezione di un film di cassetta dal titolo “Inside the walls of Folsom prison” (per il mercato italiano il titolo scelto fu inspiegabilmente “Tortura”). Questa proiezione lo aveva come destato dall’intorpedimento del servizio di leva, la violenza e l’aspetto claustrofobico della vita in prigione lo avevano ispirato ed allora aveva cominciato a scrivere una canzone che poi in breve diverrà ‘Folsom prison blues’ arcinota anche per la frase ‘…ho sparato ad un uomo a Rhino solo per vederlo morire’. Convinto di poter essere un musicista valido e, determinato a sfruttare una scena rock’n’roll veramente embrionale, una volta congedato Cash riesce ad entrare in contatto con Sam Phillips proprietario di una piccola e autogestita etichetta, la Sun Records. Dopo questo incontro inizierà ad incidere regolarmente per la Sun, ottenendo discreti successi e  divenendo anche il primo musicista della ricchissima scuderia ‘phillips’ a confrontarsi per la prima volta con la lunghezza di un album: “Johnny Cash with his hot and blue guitar”. La migliore definizione della sua musica l’ha probabilmente data June Carter nel momento in cui la descrisse con le parole: ”…è costante come un treno e tagliente come un rasoio”.

Quando nel 1967 Cash decide di provare a dare nuovo vigore alla sua carriera anzitutto disintossicandosi, la scena musicale sta subendo rapidi sostanziali e vistosi cambiamenti rispetto a quella anni ’50, ormai archiviata, ma anche rispetto a quella nata dopo i Beatles, un ulteriore scossone è infatti in arrivo, inevitabile. L’escalation della guerra in Vietnam e le manifestazioni pacifiste di protesta, la controcultura, una diffusa contestazione studentesca, l’anticonformismo, una lotta contro il sistema a volte anche armata, sono una realtà che sposta profondamente ed influenza il baricentro dell’attività artistica in tutte le sue espressioni. Diviene d’obbligo un forma di impegno che sia di carattere politico e civile, che stimoli una partecipazione di massa collettiva tesa ad un riequilibrio delle risorse disponibili, nascono movimenti in cui tutte quelle istanze vengono rivendicate al fine un più diffusa democrazia, di una maggiore libertà. E’ in questo clima che nasce il progetto del produttore Bob Johnson e di Johnny Cash di incidere un album all’interno di una prigione; di questo genere di concerti gratuiti all’interno di istituti penitenziari d’altronde il cantante ne aveva già fatti e si era sempre trovato in una strana sintonia con quel tipo di pubblico.

Quando “At the Folsom prison” sarà pubblicato è da poco stato assassinato Martin Luther King e pochi giorni mancano all’attentato mortale contro Robert Kennedy, in questa atmosfera un lavoro simile sembra essere una sorta di risposta a tutte le istanze caldeggiate a gran voce da una massa di giovani sempre più vasta che si affanna ed opera in tutto il mondo democratico per l’affermazione di valori diversi e differenti condizioni di vita. Ad accompagnare Cash nel concerto alla prigione di Folson in California, ci sono i due fedeli Marshall Grant al basso e contrabbasso ed il chitarrista Luther Perkins, gli originari Tennessee Three, ma ci sono anche Carl Perkins, la Carter Family e naturalmente June Carter che si esibisce in alcuni brani in duetto con Cash. Il repertorio è quello classico, traditional soprattutto, canzoni che parlano di prigione, di dolore, di omicidi, di sentimenti forti, di un codice d’onore mai trasgredibile. Cash canta naturalmente ‘Folson prison blues’ tra le grida di apprezzamento dei reclusi, scherza con loro, capisce che loro sono dalla sua parte, canta una canzone scritta da un detenuto, intona la classica ‘The long black veil’, storia di un uomo innocente condannato per omicidio che preferisce però la pena piuttosto che discolparsi raccontando che nell’ora del delitto lui era a letto con la moglie del suo migliore amico. Il concerto è un successo assoluto, l’album tratto è uno dei più venduti dell’anno, queste premesse consigliano infatti Cash a riproporre l’identico progetto esattamente un anno dopo nel carcere di San Quentin, ennesimo successo dello spettacolo e vendite stellari.

Negli anni “At Folson prison” è stato riproposto in varie forme e formati, con l’avvento del CD se ne è assemblata una edizione che aggiungeva tre brani all’originale, nel 2008 con una benemerita iniziativa da parte dell’etichetta, è stata infine licenziata una versione che consta di due CD e un DVD. Nei CD troviamo finalmente l’intero concerto suddiviso nei vari set che si erano alternati, il DVD è un film documentario che ricostruisce la nascita dell’operazione ed affida a personaggi come Merle Haggard, Marty Stuart o Rosanne Cash, figlia avuta dal primo matrimonio ed anche lei musicista, un commento ed una valutazione a distanza sull’intero progetto. Arricchisce il DVD una serie di foto per lo più mai precedentemente apparse che documentano l’intero concerto; le foto erano state scattate da quello che da tempo è considerato il principe dei fotografi rock e che anche dopo la sua recente scomparsa rimane insuperato: Jim Marshall.

 


 

 

TERENCE TRENT D’ARBY – INTRODUCING THE HARDLINE ACCORDING TO TERENCE TRENT D’ARBY

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Ecelettico, teatrale, talentuoso, ispirato, illuminato, arrogante. Tanto è stato detto e scritto su questo cantante, polistrumentista, autore, performer newyorkese, che nel 1987 ebbe un debutto stellare con l’album “Introducing the hardline according to Terence Trent D’Arby”.

Usando frasi eclatanti e pericolose come “ Il più grande album di debutto da S.gt Pepper, dei Beatles”, Trent D’Arby fece il suo ingresso sulla scena musicale mondiale con un album che in due soli giorni raggiunse il milione di copie vendute, fino a sfiorare i dodici milioni,  presenza fissa nelle zone alte  delle hit negli Usa  per più di un anno.

Effettivamente, “Introducing the Hardline” è considerato da pubblico e critica un album unico, prezioso, dove soul vintage, elettronica, pop e funk si fondono con molte altre venature musicali, dando vita a canzoni dalle bellissime melodie, dalle ritmiche catturanti, dallo stile perfetto.

A tutto ciò fa capo l’incredibile vocalità del cantante americano, che ricorda Sam Cook, e anche  Michael Jackson, così come  la sua capacità performante. Sospeso a metà tra un elfo dei boschi ed un sinuoso latin lover, Terence Trent D’Arby si muoveva sul palco usando la leggerezza atletica di Prince e la focosa sensualità selvatica di James Brown, artisti a cui senz’altro deve molto della sua formazione artistica.

La prima traccia dell’album “If you all get to heaven” mostra immediatamente alcuni degli stilemi presenti nell’opera: synth e strumenti elettronici mescolati al suono caldo e nervoso e alle ritmiche tipicamente black, la voce che si muove tra note roche e cavernose per poi inerpicarsi su falsetti irraggiungibili. Nel caso di “If you all get to heaven” poi, le radici gospel si fanno sentire (la mamma di TTD cantava in un coro gospel, impossibile non risentirne gli effetti).

A seguire, “If you let me stay” , di sapore pop soul , in cui i suoni sono tipicamente anni ’80,mentre l’uso dei fiati a contrappunto è di matrice più funky. La melodia è leggera, piacevole, la prova vocale si muove tra la preghiera e l’assalto appassionato.

“Wishing well”è un brano conosciutissimo, un soul raffinato dal beat dance, che si ispira allo stile asciutto e di gran classe di Prince. Il riff fischiettato rimane impresso nella memoria così come l’andamento levigato e insieme prorompente della canzone.

“I’ll never turn my back on you” è sottolineato dal bel basso tapping e dal  riff di chitarra. D’Arby guarda indietro al suo passato, ricorda una lettera  di suo padre . Parole di amore, consigli per la vita, un caldo abbraccio che non smetterà mai.

La travolgente “Dance little sister” conferma che siamo alla presenza di un disco importante, in cui gli insegnamenti della Motown e dei maestri dell r’n’b sono stati ben assimilati e rivisitati.

 Otis Redding e James Brown sono i padri di questa traccia, animalesca, fresca, ardente e teatrale. L’arrangiamento è affidato a pochi strumenti, il risultato è maestoso, una rete perfetta di suoni e ritmiche che sostengono la voce ed il groove  del cantante statunitense, che coinvolge e non perdona.

“Seven more days” è ancora un’occasione per sfoggiare capacità musicali istintive di rara qualità. La voce graffia come sabbia bollente, si innalza al cielo e ricade in onde che cullano, aiutate dalle ritmiche martellanti e dall’arpeggio delle chitarre, “Let’s go forward” è una composizione più intima, si parla d’amore, la voce si fa morbida, l’atmosfera soffusa, il ritmo è sostenuto ma smussato dalle ritmiche appena accennate.

Con “Rain” si torna ad un andamento più serrato, una marcia funky con qualche granello di sale caraibico, sotto la pioggia che prima o poi andrà via.

“Sign your name” è un capolavoro di poetica romantica, di sensualità amplificata dall’arrangiamento scarno, si, perchè la canzone è talmente bella da non aver   bisogno di alcun abbellimento e di particolare sostegno armonico, cammina e scivola da se’, come seta pregiata.

Quindi, bastano le percussioni minimali ed una synth line efficace ed elegante, al resto pensa la voce di TTD, ed il gioco è perfettamente riuscito.

.Questo singolo ebbe grandissimo successo, soprattutto in UK, dove rimase ai vertici della classifica a lungo.

Con “As yet untitled” si torna alle radici della musica black, da dove tutto ebbe inizio. Gospel, blues e soul si abbracciano in questa canzone che suona, rigogliosa, grazie al solo uso dei cori e del canto magistrale e stupefacente, tutto anima, di Trent D’Arby, che si leva dolente fino al cielo. Una prova di talento e di sensibilità unica, religiosa, commovente.

“Who’s loving you” è un  classico, scritta e cantata da Smokey Robinson negli anni ’60 e ripresa da moltissimi interpreti di grande pregio.

Anche nella riproposizione di questo brano Terence Trent D’Arby conferma il suo incredibile talento, e il risultato non ha nulla da invidiare all’originale. La voce è percorsa da un brivido animalesco , la texture della voce è piena, calda, rauca ed avvolgente, cresce e si eleva verso vette altissime, chiudendo in bellezza un disco che è rimasto nella storia.

 

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