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Legacypedia 4.0: settimana #26

14 Aug 2015

JEFF BECK – BLOW BY BLOW

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Nei primi giorni del 1974, a sei mesi dalla definitiva risoluzione del progetto Beck Bogert & Appice, Jeff Beck è nel suo cottage di Egerton tentando di focalizzare il proprio futuro come musicista e chitarrista. Sono trascorsi dieci anni dal suo esordio nell’esuberante multicolorata Londra beat: sono oramai un ricordo gli Yardbirds, nei quali è subentrato ad Eric Clapton e sarà sostituito da Jimmy Page, è finita l’esperienza con il Jeff Beck Group assieme Rod Stewart e da poco si è dissolto il trio rock o hard rock con Tim Bogert e Carmine Appice; adesso è necessario immaginare nuove soluzioni, nuovi percorsi, nuove sfide. Come sempre, per concentrarsi,  Beck si immerge nel suo lavoro/passione per le auto d’epoca che lo trasforma in meccanico e restauratore di vecchie vetture nell’attrezzatissima officina casalinga. In una mattina primaverile armeggiando tra pistoni, manicotti e guarnizioni usate, gli capita di ascoltare da una piccola radio a transistor poggiata su uno scaffale le note di un disco di Miles Davis del 1971, “A tribute to Jack Johnson”: improvvisamente tutto diviene chiaro. Abbandona arnesi e ferri del suo ‘secondo’ mestiere, rientra in casa e comunica alla sua compagna di aver appena sentito qualcosa che gli ha stimolato una particolare percezione, un senso di speranza. Ritrovato l’entusiasmo Beck inizia a pensare ai musicisti cui affidare il nuovo progetto ancora non pienamente focalizzato eppure perfettamente indirizzato verso una musica che non ricalchi il rock blues, l’hard rock, il pop, una musica che sia innovativa che possa far collimare la parola jazz con il termine rock, d’altronde se ne parla da molto ed il jazz-rock sta divenendo una indiscutibile realtà. La scelta del produttore cade su George Martin, l’uomo dei Beatles, l’uomo che li ha seguiti, affrontati, orientati, diretti, l’uomo che ha interpretato le loro a volte confuse indicazioni riuscendo a realizzarle, materializzarle in musica. Dopo la fine dei Beatles, Martin si è dedicato ad altre produzioni pop, ha dato vita a Londra agli AIR Studio, eppure nell’ottica di Jeff Beck questa scelta nasce dal fatto che Martin l’anno precedente ha prodotto “Apocalypse” quarto album della Mahavishnu Orchestra nella quale milita John McLaughlin amico di Beck e sua fonte d’ispirazione anche tecnica. Non va poi dimenticato che nella quasi totalità di “A tribute to Jack Johnson” la chitarra è affidata proprio a McLaughlin affiancato, solo nella seconda delle due session che produssero l’album, da Sonny Sharrock profeta di un free jazz espresso attraverso la chitarra. Nel lavoro che Beck inizia a progettare e che vedrà la luce con il titolo “Blow by Blow” nel marzo del 1975, è inizialmente coinvolto Carmine Appice, ma problemi relativi alla suddivisione delle quote di royalties da attribuire, finiranno per consigliare il management di Beck a rinunciare all’apporto di Appice. Con Max Middleton alle tastiere, il giamaicano Phil Chenn al basso e Richard Bailey alla batteria, nonché George Martin in sala regia come produttore ed arrangiatore iniziano le incisioni. Siamo nell’ottobre del 1974, uno dei cardini su cui si svilupperà la musica jazz-rock e uno dei riferimenti ancor oggi validi per il chitarrismo moderno sta iniziando a prendere corpo, o forse, più correttamente, sta prendendo voce. Ed è proprio la voce che il chitarrista vuole evitare, il progetto che Beck persegue è infatti quello di un album strumentale nel quale la perfetta fusione ed alternanza tra la chitarra e le tastiere creino quel necessario, imprescindibile modello melodico armonico che risulterà infine estremamente sofisticato quanto di immediata fruizione: sarà questa la vera forza dell’intero lavoro. L’album si articolerà infine su nove brani per una durata prossima ai 45 minuti. Si inizia con ‘You know what I mean’ (J. Beck, M. Middleton), 4.06 minuti che miscelano figure funk, black music ad un assolo di Beck che definisce subito come il proprio passato di chitarrista, musicista ed interprete sia superato o almeno accantonato a favore di un sound moderno, innovativo. A dissipare qualsiasi dubbio su coerenza, continuità, audacia e rilevanza di “Blow by blow” troviamo come seconda traccia una ‘She’s a woman’ (J. Lennon, P. McCartney) che per 4.31 minuti ci immerge nell’ originale lettura di un brano dei primi Beatles che Max Middleton, solo dopo vari tentativi d’arrangiamento, suggerì di sviluppare su un andamento reggae, musica che in quegli anni non era ancora diffusa sebbene stesse catturando l’attenzione grazie soprattutto alla distribuzione sempre più capillare delle incisioni di Bob Marley. Ma come sostituire la parte originariamente cantata da McCartney? Beck risolve il problema usando il talk box, un effetto che permette di modulare e modificare la voce attraverso la chitarra, non è proprio canto o voce umana, eppure gli assomiglia. La vera passione di Beck per le radici del rock, per i suoi eroi ed iniziali profeti è tutta racchiusa in ‘Constipated duck’ (J. Beck) il brano si sviluppa il 2.48 minuti di meravigliosi riff e licks di chitarra che si susseguono quasi a voler dettare una sorta di mini compendio della fraseologia rock. ‘Air blower’ è la quarta traccia che segna  e definisce l’interazione tra Beck e Middleton in 5.09 minuti di rapidi scambi, reciproci rimbecchi e repliche, in un dialogo complesso, musicalmente elevato. Incontriamo improvvisazioni ardite come quella finale di Beck ed il tutto è condito da un lavoro alla batteria di un Richard Bailey che si inserisce tra i due mostri con perfetta serenità ed autonomia esaltando il brano. Si arriva così a ‘Scatterbrain’ (J. Beck, M. Middleton) 5.39 minuti che nell’oramai lontano 1975 definirono i confini di una proposta musicale che vuole appropriarsi di quel linguaggio articolato, alto, intricato e tortuoso tipico di alcune espressioni jazz, fondendolo all’immediatezza, alla cantabilità, alla presunta semplicità del rock. Jeff Beck in ‘Scatterbrain’ elabora una proposta riuscitissima dando vita ad un classico seguito nella scaletta da un altro classico assoluto, quel ‘ ‘Cause we’ve ended as lovers’ (S. Wonder) di cui si detto e scritto infinite volte interpretando questi 5.42 minuti nelle più svariate maniere. Del brano rimane ancor oggi la prova chitarristica evoluta, proiettata nel futuro e quindi allora inattuale. Una volta tanto volendo essere leggeri e suggerendo di lasciarsi andare emotivamente alla musica si potrebbe consigliare a chi sia innamorato, ricambiato o no, decisamente respinto oppure no, di ascoltare ad alto volume il brano in compagnia dell’amata o dell’irraggiungibile amata e verificare se Beck possa fare il miracolo. Settima traccia, ancora un brano scritto da Stevie Wonder, ‘Thelonius’ 3.17 minuti nei quali Beck dissipa ogni dubbio sulla sua capacità di poter dominare la chitarra assoggettandola ad ogni sua esigenza. Il brano era stato donato a Beck da Wonder nel 1972 e inciso con Bogert e Appice per quell’album finale che non vide però mai la luce. E’ Middleton a firmare la penultima traccia da molti considerata vero imperdibile gioiello dell’album; nell’arco di 4.58 minuti vengono esposti gli ingranaggi di un poderoso basso rock, che si congiunge ad un andamento shuffle irresistibile che flirta a sua volta con dei suoni che solo le dita di Beck riescono a generare da una chitarra, non è casuale che questa ‘Freeway jam’ rappresenti da allora l’apice di ogni esibizione live di Jeff Beck. Questo primo album a suo nome chiude con una delicata, eterea, melodica ‘Diamond dust’ (B. Holland). Nei suoi 8.25 minuti il tocco di George Martin si percepisce con chiarezza, gli arrangiamenti orchestrali, come già in ‘Scatterbrain’, costruiscono un tappeto discreto, quanto sensazionale, che Beck riesce a sfruttare perfettamente, inserendosi

 


 

 

KINGS OF LEON – ONLY BY THE NIGHT

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Quella dei Followill potrebbe essere la tipica storia da film americano: tre fratelli cresciuti in viaggio per il Sud al seguito di un padre predicatore pentecostale, istruzione in casa e solo canzoni religiose da suonare timidamente. Ma con il divorzio dei genitori e l’abbandono della vita consacrata da parte del padre, un evento decisivo: il trasferimento a Nashville, e la conseguente scoperta di una musica elettrica dal fascino irresistibile. Un’epifania rock. A quel punto Caleb, Ivan e Michael hanno arruolato il cugino Matthew e chiamato la neonata band di famiglia Kings of Leon, in onore del nonno. Only by the Night è il loro quarto album, un successo in grado di consegnarli di diritto alle glorie dell’alternative rock oggi più amato dal pubblico. Le forti tinte southern degli inizi fanno spazio ad ambizioni più ampie, ad un’irruenza di respiro internazionale in grado di rendere l’album, tra le altre cose, il terzo disco dell’annata 2008 più venduto nel Regno Unito.

Closer: Su ipnotiche suggestioni elettroniche s’innesta il brano d’apertura, la drammatica Closer. E’ il lamento di un uomo abbandonato, una presa di coscienza confessata sulle macerie di un amore. L’interpretazione di Caleb Followill è il vero punto di forza di questo pezzo, che si muove come un vortice oscuro: la sua voce è tesa in un pathos tutto palpabile, perfetta resa di una disperazione reale, profonda. 

Crawl: Opposta è la reazione cantata in Crawl, ultimo singolo estratto dall’album, che si tinge  di un’accennata sensibilità politica. La musica si fa conseguentemente aggressiva, sporca nella sua genesi visibilmente Seventies  e poi coniugata secondo sensibilità post-rock felicemente noisy. Non pochi hanno paragonato simili sforzi dei Kings of Leon alle sonorità degli U2: paragone calzante, che però i fratelli Followill riescono anche a superare quanto ad incisività. 

Sex on Fire: Il singolo che ha lanciato l’album è la dichiarazione orgogliosa di una band in crescita: sono lontani i tempi dei canti religiosi suonati nelle chiese del Sud, ma sono lontani anche i tempi del primo rock così ancorato a chitarre da tradizione. Sex on Fire è uno sfogo di gridata voluttuosità, un tripudio di elettricità sudata guidato da una voce sempre più accesa e da ritmiche pressanti. Il ritornello, liberatorio in tutto il suo strepito, è un culmine esplosivo di energia. 

Use Somebody: La traccia più celebre dell’album è senz’altro Use Somebody, secondo singolo estratto.  Il successo di questo brano intrigante non conosce confini: Use Somebody ha trionfato in Europa, negli Stati Uniti e in Australia, ma anche ai Grammy Awards, dove si è conquistata, tra l’altro, il titolo di Best Rock Song. Un merito confermato dalla vastissima quantità di cover proposte nell’arco di appena sette anni. 

Manhattan: Vissuta da giovani anime provenienti da altri mondi, la città che non muore mai diventa una filosofia di vita, e si trasforma in un inno all’avventura gioiosamente musicato dagli entusiasti Kings of Leon in Manhattan. L’energico programma di vita dei Followill li porta a prendere spazio sotto i riflettori con i rispettivi strumenti: più di tutti emergono il bassista Jared ed il chitarrista Matthew, pronti a farsi sentire con vibrante chiarezza. 

Revelry: Terzo singolo estratto dall’album, Revelry ,è una raccolta di spezzoni di vita filmati a velocità raddoppiata; musicalmente, parte come una confessione di Caleb Followill cullata da una musica essenziale ed evocativa per poi crescere, farsi matura, emozionata ed emozionante nel riflettere consapevolezze e speranze, conquiste interiori affidate al cuore della notte. 

17: Scritta – come il resto delle tracce dell’album – da tutti i quattro Followill, 17 riprende il fiato, dopo le esplosioni precedenti, con atmosfere rilassate ed affascinanti. Il testo è costellato di dettagli dalla natura misteriosa – ispirato ad una diciassettenne dai contorni sfumati. La musica abbraccia una calma prima sconosciuta, si muove inspirando ed espirando, permettendo a chitarre e basso di emergere con lucidità cristallina. 

Notion: Una chitarra eccitata introduce Notion, quarto singolo estratto dall’album. Il brano è punteggiato di riff strumentali che appena dopo il primo ascolto riescono ad imprimersi nella mente con piacevole persistenza. Come raramente accade, Notion vede Matthew Followill dividersi tra chitarra e tastiere, contribuendo felicemente alla  ricchezza dell’arrangiamento del pezzo. 

I Want You: Ancora un brano la cui ricchezza descrittiva lascia spazio ad interpretazioni libere e differenti. Una carrellata di immagini dai dettagli vividi ma dal significato piuttosto misterioso. I Want You ha a livello musicale, più di ogni altro brano, il sapore di un’esecuzione live. Parte con i massicci colpi di batteria di Nathan Followill e l’ombroso riff di basso del fratello Jared, cui si uniscono poi chitarre e voce come in una distesa improvvisazione. 

Be Somebody: Dopo aver cantato il bisogno di fare affidamento su qualcuno in Use Somebody, i Kings of Leon abbracciano finalmente l’opportunità di dimostrarsi qualcuno. Lo fanno nella densa Be Somebody. Costruita su un riff fosco ed un incalzante marciare di batteria, la canzone si distende nei ritornelli, aperti, illuminati da quel proposito cantato con intento deciso… “I’m Gonna Be Somebody”. 

Cold Desert: L’album si chiude con Cold Desert, pezzo intensamente evocativo che riassume le tematiche dell’album e le fa sfilare con pathos penetrante. La metafora del deserto denso di solitudini ed inospitalità è efficace ed intelligentemente ricalcata dalla musica, arida, dura, priva di smussature. I ritmi rallentano imprimendo forza ai suoni, il lamento di Caleb Followill sfuma con una musica che presto torna a farsi fragorosa e satura di inquietudine. 

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