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Legacypedia 4.0 – settimana #23

23 Jul 2015

RINO GAETANO – MIO FRATELLO E’ FIGLIO UNICO

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Nel 1976 esce sul mercato “Mio fratello è figlio unico”. E’ il secondo album di Rino Gaetano, che dopo il primo “Ingresso libero” del 1974, si è fatto notare da pubblico e critica con il singolo “Ma il
cielo è sempre più blu”, del 1975.
Le tematiche sociali, lo spirito corrosivo ed ironico del giovane cantautore crotonese sono già espresse in uno stile personale, asciutto, scarno ed essenziale.
I suoi paradossi, la rabbia, il sarcasmo, la denuncia e a volte, una certa tenerezza sotterranea sono le strade che le sue composizioni continuano a battere ed esplorare.

Apre il disco la traccia omonima, una canzone intimista, che poggia su un pianoforte essenziale, poca batteria e cori gospel delle Baba Yaga, ed è impreziosita dal sitar suonato da Gaio Chiocchio. Il testo canta frasi apparentemente slegate tra loro ma che compongono un quadro impietoso di luoghi comuni a cui tutti ci aggrappiamo ciecamente, per non sentire forse la mancanza di senso

delle cose, per regolare le nostre esistenze ad un ritmo comune che ci rassicura. L’interpretazione di Rino Gaetano è partecipe ed affettuosa, dolente ed al contempo rabbiosa. Di grande
atmosfera,il brano diventerà poi, sempre più bandiera di generazioni a venire, che tentano di non cadere sotto l’omologazione bolsa e grigia della società contemporanea.
“Sfiorivano le viole”, è una ballad uptempo dall’andamento solare, morbido. La voce roca, blues di Rino Gaetano racconta una storia d’amore con il suo lessico particolare, scarno, slegato e
geniale. Basso chitarra batteria e percussioni, insieme al synth che commenta tutto il brano, sono un accompagnamento discreto e defilato, fino al finale, che a sorpresa cambia andamento,ed
ecco i fraseggi nervosi ed intelligenti del cantautore crotonese. Sfilata di personaggi e situazioni al limite del paradosso, segno del tempo che si muove e trasforma e cambia. Mentre lui, aspettava
lei. E intanto, sfiorivano le viole……

Ritmi latini e toni ironici , giochi di parole, assonanze atipiche e ritornelli semplici di facile presa , immagini surreali e linguaggio sferzante che sono caratteristica dello stile unico di Rino Gaetano

sono riproposti in “Glu glu”, dove la voce roca duetta col sax e si accompagna a scherzose coriste La chitarra acustica ed il piano introducono poi la bella “Cogli la mia rosa d’amore” , traccia
dall’atmosfera malinconica, sfocata e crepuscolare in cui spicca Luciano Ciccaglioni al banjo in un riff ritornello che sa di rimpianto e perdita. Il dolore di chi è lontano per lavorare, la povertà
semplice delle processioni religiose nei paesi, la durezza della vita in miniera, la bellezza lieve delle prime giornate d’estate, sono immagini bellissime e colme di amore e di pietas laica. Un canto da ubriaco a piena voce chiude questa bella canzone per passare alla famosissima “Berta filava ” , stralunata filastrocca rock in cui basso e chitarra ripetono un riff divertito e grottesco, il resto della band accompagna la voce rauca e dissacratoria di Rino Gaetano che parte da un detto popolare e compone un ritratto paradossale, surreale di una donna ,Berta, che filava la lana ma filava anche con Mario e con Gino, e poi santi vestiti d’amianto e altre immagini storte e di lato. Uno dei più grandi successi del cantautore crotonese, che regalava testi capaci di esplorare gamme diverse del sentire la vita, senza porsi limiti stutturali musicali o linguistici.
“Rosita” è un giro di valzer, una girandola folk, una ballata che, di nuovo, presenta alle nostre orecchie piccole storie di grande umanità, mentre un’arpeggio delicato di chitarra acustica apre
“Al compleanno della zia Rosina”, ricordi di sere d’estate, di gioventù e di avventura. Il discorso è frammentato, slegato , eppure istintivo e capace di comunicare sensazioni profonde.
“La zappa il tridente il rastrello” è una canzone , una danza di paese, una giostra medievale. Ma il testo, a contrasto, parla di fatturati lordi, di mansarde lussuose, di tardone che giocano a bridge, intossicazioni aziendali , pellicce e soubrettes. Una girandola di volti e situazioni grottesche di inutilità e vanità, tutto danza in questo ballo vorticoso, che gira gira gira e porta tutto via.


AC/DC – LET THERE BE ROCK

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Nel momento in cui Johnny Rotten iniziò a stravolgere la scena londinese con la sue devastanti performance, fedelmente coadiuvato e sostenuto dai pari e degni Sex Pistols, l’universo musicale locale e successivamente quello internazionale sembravano decisamente impreparati ad accogliere questa nuova sconquassante proposta. L’anno era il 1977, nel maggio di quella scomposta, irriverente stagione, mentre si festeggiava il Giubileo d’argento della Regina Elisabetta II d’Inghilterra, i Sex Pistols licenziano un 45 giri dal titolo inequivocabile: ‘God save the Queen’, il testo era dissacrante, il successo fu immediato. La parola punk non era del tutto sconosciuta, forse ancora non troppo diffusa e praticata, ma da allora il termine divenne addirittura comune, atto ad indicare non soltanto un genere musicale, ma una scena artistica molto capillare che naturalmente non coinvolgeva, ne avrebbe coinvolto soltanto l’espressione e la pratica della musica. Nella lontana Australia pochi mesi prima dell’uscita di ‘God save the Queen’, un gruppo locale già sufficientemente sostenuto da accoliti fanatici e fedeli sia in Europa che negli States, pubblica un nuovo album: “Let there be rock”. Per gli AC/DC questo è il quarto disco della loro discografia interna, che tra pubblicazioni nazionali ed internazionali si trasformerà in un labirinto difficile da dipanare; comunque l’interesse dei media per il disco ed il relativo successo schiude le porte a vari mercati, tra i quali quello britannico e soprattutto quello statunitense dove mai gli AC/DC avevano ancora suonato. Nell’ottobre del 1977 il gruppo si esibisce a Londra in pieno delirio punk; Angus Young, Bon Scott e compagni sono assolutamente restii a farsi inghiottire da quella scena punk che tutto divora e appiattisce, sono contrari ed anche contrariati se li si accosta soltanto alla proposta musicale punk. Anzi, detestano la sola idea che il loro venerato, curato e professato hard rock, pur a volte avvicinato in modo sacrilego e confuso all’heavy metal, possa anche soltanto vagamente essere ricondotto a quella scena punk che musicalmente deve ancora dimostrare molto. Al loro sdegnato rifiuto di sentirsi parte del nuovo movimento risponde una scena punk molto più disinvolta e strampalata che invece sembra accoglierli distrattamente e rispettarli. Senza troppe analisi critiche o dissezioni comportamentali, i punkettari associano gli AC/DC alla propria istanza di ribelle rifiuto incondizionato e per tanto li considerano vicini. Dopo l’Inghilterra per il gruppo sarà la volta degli Stati Uniti dove a fine anno aprono i concerti dei Kiss.  E pensare che tutto ciò è stato possibile grazie ad un album, “Let there be rock” che in poco più di quaranta minuti, otto tracce e un delirio ritmico incontrastabile, ha catturato l’attenzione di un pubblico decisamente più vasto di quello un po’ di nicchia che già li seguiva calorosamente. Dopo questo album nulla sarà più uguale, la musica continuerà a manifestarsi con la solita potenza di suono e vigore costantemente rinnovati, gli AC/DC saranno catapultati nell’ovattato quanto triturante mondo dello star system musicale. La divisa del college di Angus diverrà uniforme obbligata, i pantaloni corti un emblema, le sue isteriche corse sul palco un’attrazione irrinunciabile. Le miglia percorse attorno al globo diverranno, attraverso gli anni, prima il doppio e poi il doppio del doppio finché non si avrà neanche più la voglia di contarle. Verrà il momento della tragedia, la morte di Bon Scott, si alterneranno liti furibonde a infinite discussioni e successi giganteschi, eppure fino ad oggi gli AC/DC sono sempre lì, immarcescibili, anche se ultimamente il loro autentico motore ritmico, Malcolm Young, si è dovuto fermare in maniera definitiva per una malattia subdola quanto devastante. Tutto comunque ha avuto inizio da “Let there be rock”, da brani ormai classici come ‘Whole lotta Rosie’ che lo chiude. Il pezzo gira attorno ad una frase blues debitamente riveduta e riconsiderata, l’assolo è ciclico e con enfasi epiche, emozionali, la prestazione del cantante Bon Scott lo rende e conferma indiscusso il demiurgo. L’album apre con ‘Go down’, una sorta di prestazione sessuale mimata ritmicamente dalla chitarra ritmica di Malcolm, che raggiunge poi il climax quando il fratello Angus si getta in un assolo ipnotico che ha la sua necessaria catarsi attraverso una risoluzione melodica. ‘Dog eat do’, ‘Problem chid’ e ‘Hell ain’t a bad place to be’ sono brani dove si intuisce il futuro stile AC/DC, uno stile che oggi conosciamo ed apprezziamo, ma che allora era ancora tutto da definire ed in parte da inventare. Ciò significa chiaramente che queste tre canzoni iniziano ad indicare e centrare un modo di comporre e di arrangiare che diverrà presto marco di fabbrica. ‘Let there be rock’, il brano, è una minimale suite che si sviluppa su tre momenti distinti, su sapori heavy metal, blues e rock che si alternano senza dare tregua all’ascoltatore: capolavoro. Con ‘Bad boy boogie’ ci si confronta obiettivamente con un pezzo di mestiere; l’assolo però, incredibilmente efficace, eleva la portata del brano rendendolo degno delle tracce che lo circondano, l’assolo assai efficiente rimanda a quella piacevole confusione, a quel caos organizzato che ha orientato a volte alcuni soli di Jimmy Page nei primi anni dei Led Zeppelin. ‘Overdose’ inizia, si interrompe, viene sospesa e poi riprende con poche note di chitarra che si ripetono per un lungo minuto, ci si chiede se si stia per materializzare una insolita ballata, il presentimento però è totalmente errato perché alfine subentra un giro di chitarra in pieno stile hard rock ed il brano si distende con grande efficienza ed efficacia. Il disco è finito: gli AC/DC hanno assemblato in “Let there be rock” quel numero di brani opportuni e correttamente selezionati, che ha permesso alla band di oltrepassare definitivamente i confini dell’Australia. Il loro percorso è tracciato, la loro musica, oramai facilmente identificabile, occuperà per molti decenni le arene e gli stadi di mezzo mondo nonché gli scaffali di innumerevoli negozi di dischi sparsi nei vari continenti. Nel 1997 viene pubblicato “Bonfire” (ristampato nel 2015), un box di 5 CD che contiene, “Let there be rock – The movie, live in Paris” vale a dire l’audio di un concerto registrato nel 1979 e precedentemente pubblicato in videocassetta nel 1980 e ri-proposto un DVD nel 2011 sempre con il titolo “AC/DC: Let there be rock”.

 

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