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Legacypedia 4.0 – settimana #22

16 Jul 2015

THE CLASH – LONDON CALLING

London calling

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Eccoci dinanzi ad una band storica che ha partorito un album, uscito alla fine degli anni ’70, ma che è tra i migliori e più rappresentativi della decade successiva.London Calling è una pietra miliare della scena musicale britannica di quel periodo ed è un doppio album, concepito da una formazione nata dal movimento punk, che ha saputo miscelare come poche altre bands, tantissimi elementi di altri generi (ska, rockabilly, rhythm & blues, reggae, jazz), creando qualcosa di singolare e stupefacente, che ha ispirato molti altri gruppi in seguito.La band qui è nella sua formazione classica per eccellenza: Joe Strummer (voce e chitarra ritmica), Mick Jones (chitarra solista e ritmica e voce), Paul Simonon (basso e voce) e Topper Headon (batteria e percussioni).I Clash probabilmente, è stata la band più creativa emersa dal punk-rock e questo album ne è un esempio sgargiante, a cominciare dalla copertina con Paul Simonon in primo piano, immortalato a sfasciare il suo basso sul palco e che si ispira, molto chiaramente, alla copertina del primo disco di Elvis Presley.L’album è composto da 19 tracce, tutte suonate dal vivo in studio, con la produzione di Guy Stevens (Free, Procol Harum, Mott The Hoople).Si comincia con la title-track imperiosa e fiera, con le chitarre e la batteria all’unisono e il basso a creare la linea melodica: una canzone reggae al contrario, ossia gli accordi in battere anziché in levare.A seguire Brand New Cadillac, dove i Clash si cimentano in una delle 3 cover dell’album: trattasi di un brano rockabilly di Vince Taylor del 1959, interpretato con grande personalità e un grande impatto sonoro.Le altre 2 cover sono “Wrong ‘Em Boyo” e “Revolution Rock”, rispettivamente le tracce 11 e 18; la prima è quella di un brano rocksteady-ska dei Rulers che a loro volta avevano ripreso Stagger Lee di Lloyd Price; la seconda (letteralmente esplosiva) è di un brano reggae di Danny Ray, arricchito dai fiati degli Irish Horns, ospiti speciali nel disco.In “Jimmy Jazz” (terza traccia) si rallenta il ritmo con fischiettii, fiati e un basso che passeggia su una linea morbida e ritmata, accompagnata da una chitarra dal suono metallico e filtrata da un pedale wah-wah, mentre in “Spanish Bombs” (sesta traccia) si parla della guerra civile spagnola del 1936-39: se le parole pronunciate in spagnolo da Strummer suonano magari poco iberiche, l’accordo in minore di Jones su “corazon” va invece dritto al cuore, appunto.Nella traccia 4 (Hateful), Strummer descrive la natura “odiosa” degli spacciatori di droga, in questo caso l’eroina, ossia la sostanza che aveva ucciso il suo amico Sid Vicious (Sex Pistols).“Rudie Can’t Fail” (traccia 5) vede Strummer e Jones duettare in un brano esuberante, magistralmente sostenuto dai fiati degli Irish Horns.Meritano senz’altro una citazione anche: l’anti-capitalistica “Clampdown” (traccia 9); l’energica “Death Or Glory” (traccia 12) che parla delle generazioni precedenti di rock stars che giuravano che sarebbero morte prima di invecchiare;la reggaeggiante “Guns Of Brixton” (traccia 10), cantata da Paul Simonon, che ne delinea la linea melodica con un giro di basso ipnotico, nonchè le due tracce cantate da Mick Jones, ossia: “Lost in The Supermarket “ (traccia 8), che parla di uno sfrenato consumismo divoratore della vita del cittadino del mondo capitalista. che sin dalla giovane età è escluso e alienato dalla società stessa e “Train in Vain” (traccia 19 – qui in versione rimasterizzata), che originariamente non era indicata sulla tracklist dell’album, ma che appariva come traccia fantasma alla fine dell’album.Questo, tra l’altro, fu il primo singolo dei Clash ad entrare in una Top 30 statunitense.In definitiva, l’uscita di “London Calling” fu un vero spartiacque, in quanto sancì la fine degli anni ’70, ma anche la fine di una stagione musicale. Un’intera generazione di giovani, all’indomani della sua uscita, percepì, forse già con un pizzico di nostalgia, il definitivo tramonto del movimento punk “storico”, ossia di quello che, in buona parte, si era identificato con la storia dei gruppi inglesi che l’avevano alimentato e supportato.

 


 

PATTI SMITH – HORSES

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Ancora oggi, a distanza di vari decenni dalla sua pubblicazione, “Horses” sembra volerti colpire e farti magari barcollare come riesce a fare un diretto ben assestato in pieno volto. “Horses” è un album che non perde energia, non si consuma, anzi sembra autoalimentarsi, rifiorire e riposizionarsi anche dopo i ciclici intervalli dettati dalle mode, dal tempo. E’ uno di quei misteriosi prodotti che mantiene intatta una devastante bellezza e una immediatezza che soltanto rari musicisti sanno comunicare attraverso le proprie incisioni. Quando Patti Smith entra agli Electric Lady Studios, il 2 settembre del 1975, può a tutti gli effetti essere considerata una dilettante e sarà forse questa sua condizione di appassionata principiante la vera forza infusa in questo lavoro. Alle spalle ha soltanto un 45 giri autoprodotto nel 1974, stampato in 1.500 copie, che conteneva sul lato A un omaggio a Jimi Hendrix, ‘Hey Joe’, con Tom Verlaine alla chitarra e sul retro una spettacolare ‘Piss factory’, scritta dalla Smith assieme a Richard Sohl. Non è certo un caso che la side B di questo 45 giri divenne la facciata più popolare seppure nel ristretto giro underground newyorkese. Lo stimolo per scrivere nuove canzoni ed ipotizzare un album nacque proprio dall’aver constatato come ‘Piss factory’ e non la cover di Hendrix  si fosse imposta all’attenzione. “Horses” prende quindi corpo da una poetessa ancora non manifestatasi appieno e da un Lenny Kaye che alternava ancora la sua attività di giornalista musicale (Creem, Rolling Stone, Fusion) con quella di chitarrista. A completare il gruppo c’erano poi il pianista tastierista Richard Sohl, il bassista pluristrumentista Ivan Kral ed il batterista Jay Dee Daugherty. Quando entrano nello studio A degli Electric Lady ad aspettare i  musicisti alla consolle c’è John Cale ex Velvet Underground, mentre dietro all’intero progetto aleggia e si muove la figura geniale di Clive Davie, l’intuitivo fondatore dell’Arista Records che soltanto pochi mesi prima aveva proposto un contratto alla Smith. Cosa accadde in quelle cinque settimane in cui l’album fu inciso e missato e cosa “Horses” racchiuda e rappresenti lo ha scritto Patti Smith nel suo libro “Just kids” nel quale racconta la propria esperienza newyorkese negli anni ’70, anni di formazione e presa di coscienza.  Scriverà che negli studi da lui stesso voluti e finanziati, Jimi Hendrix girovagava titubante in forma di spirito alla  ricerca di un espediente che gli permettesse ri-materializzarsi per dare così finalmente vita a quel progetto musicale bruscamente interrottosi cinque anni prima. A detta della Smith nello studio riecheggiavano   anche, quasi palpabili, le speranze per un nuovo inizio, per un nuovo rinascimento culturale. Queste erano le percezioni e le impressioni, nonché le motivazioni che stimolavano Patti Smith a creare con “Horses” una musica profondamente ossequiosa e rispettosa del sound e dell‘utopia stessa espresse dal rock, da quella musica che l’aveva aiutata ad affrontare ed attraversare una adolescenza complessa e problematica. Forse l’elemento più importante dell’intero lavoro risiede nell’aver avuto il coraggio di essere rozza e ricercata allo stesso tempo, profonda e disimpegnata, tetra e solare, musicalmente barbara quanto evoluta, innovativa e accessibile; forse per queste qualità “Horses” merita appieno il posto che nelle varie classifiche compilate da pool assemblati da note testate musicali, lo vedono posizionato tra i migliori album della pur breve storia del rock. Sarà il critico Lester Bangs ha sottolineare genialmente come un disco del genere non rientri nella categoria del recitato, infatti anche chi non conosce una parola di inglese può rimanere impressionato dalla forza emotiva della musica espressa. Il più eloquente degli esempi è la terza traccia, quella ‘Birdland’ che nei 9 minuti e passa in cui si dipana  può sembrare un visionario sermone, una soffocante tiritera, un lungo sproloquio in versi liberi, quando più semplicemente rientra invece nella più perfetta rappresentazione e materializzazione di una poetica musicale che annoda tra loro inflessioni ed influenze tra le più disparate. In “Horses” si agitano infatti i fantasmi di Jim Morrison, del Dylan più proclamatorio, della soul music, di un Van Morrison di cui la Smith proprio nel pezzo d’esordio dell’album re-inventa la classica ‘Gloria’ trasferendola in un universo personale, quasi a volerla strappare dalle grinfie e dalla patria potestà del musicista nord irlandese. Ad accompagnare e nobilitare questo primo lavoro di Patti Smith troviamo anche Paul Verlaine chitarrista dei Television che da lì a poco più di un anno esordiranno con lo strabiliante “Marquee moon”. La chitarra di Verlaine impreziosisce ‘Break it up’, il musicista firma il pezzo con la Smith ed assieme i due descrivono un sogno nel quale Jim Morrison pur essendo incatenato come Prometeo riesce a liberarsi improvvisamente. Altro ospite di caratura Allen Lanier autore e co-fondatore dei Blue Oyster Cult che firma, sempre assieme alla Smith, ‘Kimberly’ e ‘Elegie’, ultimo brano dell’album al quale pone come simbolico suggello, una fantastica parte per chitarra. Nel già citato “Just kids” riferendosi a questo brano troviamo scritto: “In Elegie ricordavamo ogni cosa, il passato, il presente e il futuro, chi avevamo perso, chi stavamo perdendo, e chi alla fine avremmo perso”. La stampa specializzata riconobbe subito il valore di “Horses” sottolineandone alcune caratteristiche ritenute di rottura. In verità questo lavoro come alcuni pochi altri nella storia del rock svolge una funzione di collante, amalgama infatti perfettamente una infinità di maniere di intendere il rock, di proporlo, anche di viverlo e, di conseguenza ne dilata la tradizione, la aggiorna, la rende più connessa al momento nel quale viene espresso. Con il passare del tempo la veemenza e la potenza di “Horses” non hanno perso virilità, e per festeggiare il compiersi dei suoi trenta anni, il 25 giugno del 2005 alla Royal Festival Hall di Londra, Patti Smith ha voluto riproporre dal vivo l’intero album rispettandone persino la scaletta. Sul palco c’erano anche Tom Verlaine e Flea dei Red Hot Chili Peppers al basso. Da alcuni anni questo intero concerto è disponibile in un doppio CD che contiene anche la versione rimasterizzata dell’originario “Horses” arricchito da una nona traccia, una versione di ‘My generation’ degli Who incisa live il 26 gennaio del 1976 dal Patti Smith Group a Cleveland in Ohio. Aver aggiunto ad “Horses” una versione live, oltretutto nella resa audio perlomeno datata, porta a credere che la scelta non sia casuale. ‘My generation’ ancora oggi mantiene la sua funzione dissacratoria, destabilizzante, di rottura e l’intero “Horses” appare essere perfettamente speculare a quel brano degli Who reso famoso sia dalla frenesia esecutiva che dalla frase: ‘spero di morire prima di diventare vecchio’ nella quale si identificò una intera generazione. Se poi queste parole scritte da Pete Townsend nel 1965 possano essere in qualche maniera condivise da Patti Smith è tutto da vedere, di certo il caos sonoro di ‘My generation’, la sua dissacrante empietà hanno prodotto varie generazioni di rockers ed instillato nel punk e nella scena derivata alcuni elementi ben riconoscibili.

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