WALLS
-
1. Waste A Moment 3:03
-
2. Reverend 3:54
-
3. Around The World 3:34
-
4. Find Me 4:05
-
5. Over 6:10
-
6. Muchacho 3:09
-
7. Conversation Piece 4:59
-
8. Eyes On You 4:40
-
9. Wild 3:39
-
10. WALLS 5:29
C’è stato un periodo in cui i Kings Of Leon stavano lì, assieme ai più grandi del rock, quelli che fino a poco tempo prima erano i loro padrini e loro mentori. Anzi, stavano pure più in alto, perché “Only by the night” (2008), e quel singolo “Sex on fire” li proiettarono in testa alle classifiche, sulle radio e a riempire le arene. Erano i nuovi dei del rock. Loro, che in realtà erano semplicemente una famiglia del profondo sud, da Franklin (Tennessee).
Il successivo “Come around sundown” finì per avere su un effetto altrettanto classico, che di solito capita al secondo (e non al quinto) album: la promessa non mantenuta, il crollo sotto la pressione della celebrità. Nel 2013, a sbornia ed hangover smaltiti, arrivò “Mechanical bull”, un disco senza l’ansia di dimostrare qualcosa al mondo, felicemente convenzionale, rilassato. Un ritorno al grande intrattenimento rock.
Nel 2016 arriva il settimo album, quello della maturità: We Are Like Love Songs, ovvero “WALLS”. Un ritorno alle origini, fin dal luogo di registrazione: “Siamo tornati a Los Angeles, dove abbiamo inciso i primi due dischi, per vedere se quel luogo continua ad ispirarci: avevamo bisogno di cambiare scenario”, raccontò Caleb Followill. E per lo stesso motivo, la band smette di lavorare con Jacquire King e Angelo Petraglia, affidandosi a Markus Dravs, uno che in curriculum ha diversi Grammy, i Coldplay, gli Arcade Fire, i Mumford & Sons, Florence + the Machine.
Il disco arriva a fine 2016, anticipato da un teaser che recita “Crollano i muri”: è un gioco di parole, ma non c’è nessuna rivoluzione. Un cambio di scenario, appunto, questo sì: i Kings Of Leon rimangono un gruppo di buoni conservatori del rock, anche se provano ad uscire, grazie a Dravs, dalla loro comfort zone.
La copertina sembra citare “Is there anybody out there” dei Pink Floyd e di “Byrdmaniax” dei Byrds, con i quattro visi dei musicisti rappresentati da riproduzioni in cera grandi poco più di un pollice e immerse in un liquido lattiginoso – ma il disco è meno inquietante di quello che l’immagine lascia pensare. Il gruppo cerca di rimanere se stesso, ma non ha più bisogno di affermare la propria identità come con “Mechanical bull”.
Il risultato è un album mainstream, ben scritto, solido, che dà al pubblico quel che il pubblico vuole e intanto prova un (piccolo) rinnovamento. È meno rock’n’roll e decisamente più cool del precedente, unisce il rock da stadio di “Waste a moment” con la new wave, a ballate di grande effetto (come la title-track). C’è anche il latin-rock di “Muchacho” e il funk-rock “Around the world”.
Anche con le storie, i KoL giocano felicemente con ambienti e stereotipi: “Muchacho” sembra leggera ma racconta di un amico morto di cancro. C’è la vicenda di una cameriera che viaggia dal Texas a Hollywood con tanti sogni per la testa, ovvero “Waste a moment”. E c’è la storia vera della moglie del cantante che vuole trasferirsi in California, per poi cambiare idea (“Conversation peace”), quella di un uomo che s’impicca nel giardino della sua villa. La storia più bizzarra è probabilmente quella di “Find me” dove una ragazza – ispirata ancora una volta alla moglie di Caleb, la modella Lily Aldridge – s’innamora di uno spettro che la tormenta in una stanza d’albergo di Los Angeles.
Quando arrivano a questo disco, i Kings of Leon percepiti come una band in discesa, con una carriera da rivitalizzare – secondo Billboard, negli Stati Uniti gli ultimi tre album hanno venduto in ordine cronologico 2.500.000, 776.000 e 347.000 copie. “WALLS” li piazza al numero 1 in sette paesi, tra cui gli Stati Uniti e l’Inghilterra. Gli eccessi di un tempo sono definitivamente alle spalle: “WALLS”, più che abbattere un muro, chiude una porta e apre un portone.