Sanacore
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1. 5:29
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2. Maje 5:40
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3. 4:32
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4. Sanacore 4:02
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5. Ammore Nemico 6:32
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6. Scioscie Viento 4:51
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7. Ruanda 7:07
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8. 6:19
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9. Se Stuta ‘O Ffuoco 3:58
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10. Tempo 4:00
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11. 5:29
Nella storia della musica pop contemporanea, in pochi sono riusciti a dare la giusta dignità alla lingua napoletana, a impreziosirla in una cornice originale, rinnovandola pur senza tradirne le radici, profonde ed importanti.
Pino Daniele su tutti, poi 99 Posse, e Almamegretta sono i nomi che subito saltano alla mente.
Gli Almamegretta si formano a Napoli alla fine degli anni ’80, e immediatamente cominciano un percorso alternativo, pregiato. Dopo varie esperienze live, cambio di componenti del gruppo e la pubblicazione di vari album che li impongono all’attenzione di un pubblico sempre più nutrito, nel 1995 pubblicano “Sanacore”, album che li lancerà definitivamente nel mainstream musicale.
La mescolanza di dub e reggae a sonorità partenopee, africane, orientali e caraibiche rende “Sanacore un’opera stimolante, innovativa, affascinante , che incuriosisce ed affascina ad ogni nota. L’elettronica mescolata all’uso di strumenti tradizionali del mediterraneo, la voce ammaliante del leader Gennaro della Volpe, “Raiz”, la ricerca di un suono personale, grazie alla genialità e all’inventiva di T.Rad , che campionava, missava, sperimentava, e all’apporto dei musicisti della band, rendono questo disco un’opera che resiste al tempo.
La rivista “Rolling Stone” ha inserito “Sanacore” tra i 100 dischi italiani più belli di tutti i tempi, rendendo giustizia a questo lavoro denso di fermenti vivissimi e di idee .
Raiz&co. si avvalsero di collaborazioni apparentemente inconciliabili che funzionarono alla perfezione. Tra gli altri citiamo l’autore di poesie napoletane Salvatore Palomba e il re del Dub Adrian Sherwood, che aiutarono il gruppo a sviluppare una miscellanea esaltante che prese il nome di “Sanacore”.
“’O sciore cchiù felice” che inaugura il disco ha un andamento di morbido reggae, arricchito da campionamenti, uso di elettronica.“’o sciore cchiù felice è chello senza radice”, canta Raiz in questo inno alla libertà . Niente radici o guinzagli, niente legami che tengono stretti a terra e impediscono di innalzarci, leggeri, alla ricerca di noi e del nostro spazio vitale.
“Maje” si avvale di percussioni e andamento caraibico. L’arrangiamento e l’impianto sonoro sono scarni, essenziali, ipnotici, mentre per “P’e ddint’ ‘e viche addo’ nun trase ‘o mare”, scritta in collaborazione con Salvatore Palomba, è forte l’evocazione partenopea di vicoli, mercati, panni stesi e colori, in una commistione di suoni orientali che si trasformano in odori e immagini.
“Sanacore” si avvale della bella voce di Giulietta Sacco, interprete storica della tradizione musicale napoletana. E’ un’antica canzone nata nelle strade di Napoli, registrata direttamente dalla voce delle donne del popolo e poi rielaborata e riletta dal gruppo, arricchita dal bel flauto di Daniele Sepe.
“Ammore nemico” è introdotta dalla voce da brivido di Marcello Colasurdo del Gruppo Operaio di Pomigliano d’Arco “’E Zezi”.
Voci antiche, flauti, percussioni, le onde del mare, fanno da sfondo alla storia d’amore tra due soldati, nemici, durante la guerra nell’ex Jugoslavia. Elettronica , synth, chitarre e ritmiche scandiscono questa danza d’amore e di morte, un grido di libertà, un inno alla diversità che arricchisce e non divide.In ”Scioscie vento” il basso di Pablo corre sul filo di una storia di ordinaria violenza, il rogo del ghetto africano di Villa Literno. Urla, dolore e disperazione, uomo contro uomo, fratello contro fratello immerse in una canzone intensa, raffinata.
“Ruanda” è strumentale, perchè il suono a volte è più universale di qualunque lingua, canto o dialetto. Unica voce, quella dei bambini ruandesi.
“Nun te scurdà” ha una melodia di facile comprensione, il ritmo reggae e la voce addolorata, pensosa, sanguigna di Raizz parlano a nome di una donna che rivendica la propria forza, il diritto a sbagliare, ad amare. La canzone sa di rabbia, di desiderio, di dolore e malinconia.
“Se stuta ‘o fuoco” ha un impianto fortemente elettronico, sperimentale, psichedelico, mentre “Tempo” racconta la nostra incapacità a relazionarci con il tempo, che è un bene, un elemento naturale da assaporare, esplorare a fondo, ma che viene vissuto come una corsa cieca e forsennata, qualcosa da sfruttare, da combattere. Un’elogio alla lentezza, al bisogno di fermarci, di guardarci e di capire.
L’elegante versione dub di “’O sciore cchiù felice” chiude questo album prezioso, visionario, godibile, che sa di fuoco, di voci di strada, di saggezza millenaria e sperimentazione, di commistione di sonorità e di culture diverse.