Bitches Brew (Legacy Edition)
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1. Pharaoh’s Dance 20:05
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2. Bitches Brew 26:58
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3. Spanish Key 17:32
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4. John McLaughlin 4:22
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1. Miles Runs the Voodoo Down 14:02
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2. Sanctuary 10:57
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3. Spanish Key 10:20
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4. John McLaughlin 6:39
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5. Miles Runs the Voodoo Down 2:49
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6. Spanish Key 2:49
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7. Great Expectations 2:41
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8. Little Blue Frog 2:36
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1. Directions 7:14
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2. Miles Runs The Voodoo Down 9:40
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3. Bitches Brew 15:35
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4. Agitation 10:28
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5. I Fall In Love Too Easily 3:39
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6. Sanctuary 3:29
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7. It’s About That Time/The Theme 19:52
Il 14 novembre del 1969 John Berg, Joe Agresti e Phyllis Mason ricevettero una nota dal produttore Teo Macero.
“Miles mi ha appena chiamato dicendomi che vuole che l’album sia intitolato ‘BITCHES BREW’. Per piacere, informate chi di dovere”.
Una telecamera puntata sui volti dei tre dirigenti della CBS, a riprendere le loro reazione di fronte a quel titolo – un gioco di parole tra “Pozione magica” (witches brew) e la parola “bitch” (cagna, puttana) – avrebbe prodotto un documento storico di enorme valore quanto la lettera in sé.
Ma già allora alla CBS erano abituati al genio e alla follia del più grande jazzista di tutti tempi. Miles Davis era “Miles ahead”, avanti a tutti. Un vero visionario, uno che individuava forme d’arte che ancora nessuno si immaginava lontanamente. E con “Bitches brew” avrebbe alzato ulteriormente un’asticella che aveva già piazzato terribilmente in alto.
Nel 1969, Miles Davis era reduce da un periodo relativamente stabile con quello che sarebbe diventato noto come il “secondo grande quintetto”. Ma la formazione si sfaldò nel momento in cui Miles iniziò ad interessarsi al rock, pensando che la scena fosse composta musicisti che lui riteneva senza competenze, gente che vendeva dischi senza sapere quello che faceva. Miles, che aveva quelle doti, poteva fare non solo altrettanto, ma molto di più.
Davis iniziò così ad includere in formazione strumenti elettrici e nuovi musicisti – tutti nomi che sarebbero diventati grandi e leggendari solisti, da Joe Zawinul a Chick Corea a John McLaughlin a Jack DeJohnette. Il primo risultato fu l’incisione di “In a silent way”, nel febbraio del ’69. Nell’agosto dello stesso anno, in piena “Summer of love”, Miles Davis si ritrovò con i suoi musicisti per tre giorni negli studi della Columbia, a New York. Al solito, a tutti vennero date pochissime istruzioni su una base di sue composizioni, con l’eccezione di “Pharaoh’s Dance” (di Joe Zawinul) e”Sanctuary” (di Wayne Shorter). Si suonava, e basta, seguendo il leader.
Ma ancora più importante, più che la produzione, fu la post-produzione, in cui vennero portate all’estremo le tecniche di montaggio sonore già usate per “In a silent way”. Miles Davis e Teo Macero, pur con le limitazioni tecnologiche del tempo – ovvero di dover letteralmente lavora di taglia e incolla sui nastri – rimontarono le performance in nuove sequenze. “Pharaoh’s dance”, nella versione poi pubblicata, è il frutto del montaggio di 19 tagli. Insomma, anche lo studio di registrazione venne usato come strumento: oggi è una pratica consueta. Ma al tempo era qualcosa di nuovo e totalmente fuori dagli schemi, soprattutto nel jazz, legato a canoni rigidi e puristi..
Il risultato è un album che, come scrisse al tempo Rolling Stone, ingaggia lo spettatore, e può essere letto a diversi livelli: “La cosa stupenda del progresso di Miles è che incoraggia gli altri a crescere con lui. Nel contesto del suono, c’è spazio sia per i suoi musicisti che per i suoi ascoltatori per realizzare le proprie visioni. (…) La musica è così ricca nella sua forma e nella sua sostanza che permette, anzi incoraggia grandi viaggi di immaginazione da parte di chi ascolta”
Il grado zero della lettura di “Bitches brew” è la definizione del jazz-rock, genere che aveva iniziato a sperimentare con “In a silent way”. Una lettura incoraggiata anche da un titolo come “Miles runs the voodoo down”, che cita esplicitamente Hendrix, e dal fatto che Davis, in quel periodo suonò assieme ai Grateful Dead, a Santana, a Neil Young, accettando riduzioni sui suoi soliti cachet.
Ma da qua in poi, “Bitches brew” è molto di più: un disco di una bellezza e di una ricchezza sonora ancora oggi enormi, sia per le strutture musicali (frutto di un gruppo che contava due batterie, percussioni, sassonfoni, pianoforti elettrici, due bassi, una chitarra solista), sia per la quantità di idee e spunti.
Non è un caso se fu subito accolto in maniera entusiastica dalla critica. Uscito nell’aprile 1970, nel 1976 sarebbe diventato disco d’oro, e l’album più venduto di Miles – e le vendite sarebbero aumentate ad ogni ristampa. E sarebbe rimasto nella storia della musica, di tutta la musica, come uno degli album più importanti di uno degli artisti più geniali di sempre.